Inno a Demetra

Demetra dalle belle chiome, dea veneranda, io comincio a cantare,

e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo

rapì – lo concedeva Zeus dal tuono profondo,

che vede lontano,

eludendo Demetra dalla spada d’oro,

dea delle splendide messi

mentre giocava con le fanciulle dal florido seno, figlie di Oceano,

e coglieva fiori: rose, croco, e le belle viole,

sul tenero prato; e le iridi e il giacinto;

e il narciso, che aveva generato, insidia per la fanciulla dal roseo volto,

la Terra, per volere di Zeus compiacendo il dio che molti uomini accoglie;

io mirabile fiore raggiante, spettacolo prodigioso,

quel giorno, per tutti: per gli dei immortali, e per gli uomini mortali.

Dalla sua radice erano sbocciati cento fiori

e all’effluvio fragrante tutto l’ampio cielo, in alto,

e tutta la terra sorrideva, e i salsi flutti del mare.

Attonita, ella protese le due mani insieme per cogliere il bel giocattolo:

ma si aprì la terra dalle ampie strade nella pianura di Nisa,

e ne sorse il dio che molti uomini accoglie, il figlio di Crono,

che ha molti nomi, con le cavalle immortali.

E afferrata la dea, sul suo carro d’oro, riluttante,

in lacrime, la trascinava via; ed ella gettava alte grida invocando il padre Cronide,

eccelso e possente.

Ma nessuno degl’immortali o degli uomini mortali

udì la sua voce, e nemmeno le ninfe dispensateci di frutti.

Solo la figlia di Perse, che ha candida la mente,

Ecate dal diadema luminoso, nel suo antro, e il divino Elio,

splendido figlio d’Iperione, udivano la fanciulla che invocava il padre Cronide ;

ma questi, in disparte, lontano dagli dei sedeva nel tempio dalle molte preghiere,

ricevendo belle offerte dagli uomini mortali.

Intanto, secondo il volere di Zeus, portava con sé la dea riluttante

colui che è signore di molti, e molti uomini accoglie,

il fratello del padre,

il figlio di Crono, che ha molti nomi, con le cavalle immortali.

Fin quando la dea scorgeva la terra e il cielo stellato,

il mare pescoso dalle vaste correnti,

e i raggi del sole, e ancora si attendeva di rivedere la cara madre

e la stirpe degli dei che vivono in eterno,

sebbene ella fosse angosciata, la speranza le confortava il nobile cuore…

risuonarono le vette dei monti, e gli abissi del mare,

alla sua voce immortale, e l’udì la madre veneranda.

Un acuto dolore la colse nell’animo: sulle chiome divine lacerava con le sue mani il diadema, si gettava sulle spalle un cupo velo,

e si slanciò sopra la terra e il mare, come un uccello,

alla ricerca. Ma nessuno degli dei e degli uomini mortali voleva dirle la verità,

e nessuno degli uccelli venne a lei come verace messaggero.

Per nove giorni, allora, la veneranda Demetra sulla terra

vagava stringendo nelle mani fiaccole ardenti:

né mai d’ambrosia e di nettare, dolce bevanda,

si nutriva, assorta nel suo dolore; né s’immergeva in lavacri.
Ma quando infine giunse per la decima volta la fulgente aurora

le venne incontro Ecate, reggendo con la mano una torcia;

e, desiderosa d’informarla, le rivolse la parola, e disse:

«Demetra veneranda, apportatrice di messi, dai magnifici doni,

chi fra gli dei celesti o fra gli uomini mortali ha rapito Persefone,

e ha gettato l’angoscia nel tuo cuore?

Infatti, io ho udito le grida, ma non ho visto coi miei occhi

chi fosse il rapitore: ti ho detto tutto, in breve e sinceramente».

Così dunque parlò Ecate; e non le rispose

la figlia di Rea dalle belle chiome; invece, rapidamente, con lei mosse,

stringendo nelle mani fiaccole ardenti.

E raggiunsero Elio, che vigila sugli dei e sugli uomini;

si fermarono dinanzi ai suoi cavalli, e lo interrogò la divina tra le dee:

«Elio, tu almeno abbi rispetto per una dea, quale io sono, se mai

per le mie parole o i miei atti fui gradita al tuo cuore e al tuo animo.
La figlia che ho generato, mio dolce germoglio, dal volto luminoso…

ho udito il suo alto grido attraverso il limpido etere,

come se subisse violenza: ma non l’ho vista coi miei occhi.

Ma poiché tu, certo, su tutta la terra e sul mare

dall’etere divino guardi coi tuoi raggi, sinceramente dimmi se mai hai veduto

chi la mia figlia diletta ha preso a forza, contro il suo volere,

mentre ero lontana, ed è fuggito: sia uno degli dei, o degli uomini mortali».

Così parlò: e a lei rispondeva il figlio d’Iperione:

«Demetra augusta, figlia di Rea dalle belle chiome, tu lo saprai:

io, infatti, profondamente ti rispetto e ti compiango,

angosciata come sei per la figlia dalle agili caviglie. Nessun altro

fra gl’immortali è responsabile, se non Zeus adunatore di nembi,

che l’ha destinata, perché sia detta sua sposa fiorente,

a suo fratello, Ade: e questi giù nella tenebra caliginosa

la trascinò con le sue cavalle, dopo averla rapita, mentre ella gridava a gran voce.

Ma tu, o dea, metti fine al tuo pianto copioso: non conviene

che tu serbi così, senza motivo, un rancore inesorabile. Non è indegno di te,

come genero, fra gl’immortali, Aidoneo signore di molti uomini,

tuo fratello, tuo germano: il suo dominio egli ha ottenuto quando,

all’origine, si fece la divisione in tre parti;

e abita fra coloro di cui gli toccò essere il sovrano».

Dopo aver parlato così, incitò i cavalli: ed essi al suo richiamo

celermente tiravano il carro veloce, come uccelli dalle ali distese;

ma nel cuore della dea penetrava un dolore più profondo e struggente.

E in seguito, adirata contro il figlio di Crono, dalle nere nubi,

abbandonando il consesso degli dei e il vasto Olimpo,

andava tra le città degli uomini e i pingui campi,

celando il suo aspetto, per molto tempo: né alcuno degli uomini

e delle donne dalla vita sottile la riconobbe incontrandola,

fin quando ella giunse alla casa del saggio Cèleo,

che era allora il signore di Eleusi fragrante d’incenso.

Ben presto giunsero alla casa di Cèleo, caro a Zeus,

e vennero, attraverso il portico, là dove, attendendole,

la madre veneranda sedeva presso un pilastro del tetto saldamente costruito,

stringendo al petto l’infante, fresco germoglio ; le fanciulle a lei

corsero, e la dea varcò la soglia: col capo

toccò la volta, e riempì il vestibolo di luce sovrumana.

Rispetto e venerazione presero la donna, e insieme pallido timore:

si alzò dal trono in onore della dea, e la esortò a sedersi.

Ma Demetra appòrtatrice di messi, dai magnifici doni,

non volle sedersi sul trono risplendente,

e ristette in silenzio, abbassando i begli occhi,

finché l’operosa Iambe ebbe disposto per lei un solido sgabello,

gettandovi sopra una candida pelle.

Là ella sedeva, e con le mani si tendeva il velo sul volto;

e per lungo tempo, tacita e piena di tristezza, stava immobile sul seggio,

né ad alcuno rivolgeva parola o gesto,

ma senza sorridere, e senza gustare cibi o bevande, sedeva,

struggendosi per il rimpianto della figlia dalla vita sottile:

finché coi suoi motteggi l’operosa Iambe,

scherzando continuamente, indusse la dea veneranda

a sorridere, a ridere, e a rasserenare il suo cuore:

Iambe, che anche in seguito fu cara all’animo della dea.
Allora Metanira, riempita una coppa di vino dolce come il miele,

a lei la porgeva; ma la dea la respinse: disse che, in verità,

le era vietato bere il rosso vino, e comandò che le offrisse come bevanda

acqua, con farina d’orzo, mescolandovi la menta delicata.

La donna preparò il ciceone, e lo porse alla dea come ella aveva ordinato:

Demetra, la molto venerata, accettandolo, inaugurò il rito.

E fra loro cominciò a parlare Metanira dalla bella cintura:

« Salute a te, o donna, poiché io credo che tu sia nata da genitori

non volgari, anzi illustri: illuminano il tuo sguardo dignità

e maestà, come quello dei re che rendono giustizia.
Ma, sebbene a malincuore, ineluttabilmente noi esseri umani

dobbiamo sopportare quel che ci danno gli dei: infatti,

il giogo ci grava sul collo.

Ora tuttavia, poiché sei giunta qui, disporrai di tutto ciò ch’io

possiedo : e tu alleva questo mio figlio, che, nato tardi, contro ogni speranza

mi hanno concesso gl’immortali: per lui io ho molto pregato.

Se tu volessi allevarlo, ed egli giungesse alla piena giovinezza,

tale compenso ti darebbe per la tua opera

che, incontrandoti, qualunque donna certamente t’invidierebbe ».

A lei rispose a sua volta Demetra dalla bella corona:

«Anche a te salute, di tutto cuore, o donna;

e gli dei ti concedano felicità.

Di tuo figlio volentieri mi prenderò cura, come tu mi chiedi;

lo alleverò, e in verità non credo che, per negligenza della nutrice,

mai lo abbatteranno il maleficio, o le erbe velenose:

conosco un rimedio molto più forte delle erbe nocive;

conosco, per il maleficio funesto, un valido scongiuro».

Così disse, e strinse il fanciullo al seno odoroso d’incenso,

tra le braccia immortali; si rallegrava nel cuore la madre.

Così ella lo splendido figlio del saggio Cèleo,

Demofonte, che Metanira dalla bella cintura aveva generato,

allevava nel palazzo; ed egli cresceva simile a un essere divino,

senza prendere cibo, senza succhiare il bianco latte:

Demetra lo ungeva d’ambrosia come il figlio di un dio,

dolcemente soffiando su di lui e stringendolo al seno.

Di notte, lo celava nella vampa del fuoco, come un tizzone,

nascondendosi ai genitori: per essi era grande meraviglia

come egli cresceva precoce, e somigliava nell’aspetto agli dei.

E lo avrebbe reso immune da vecchiezza, e immortale,

se nella sua stoltezza Metanira dalla bella cintura,

spiando durante la notte dalla sua stanza odorosa,

non li avesse scoperti. Gettò un grido e si battè le cosce

temendo per suo figlio, e si turbò profondamente nel cuore:

e lamentandosi pronunciò queste parole alate:

« Figlio mio, Demofonte, la straniera in una grande fiamma

ti fa scomparire, e a me lascia pianto e affanno doloroso ».

Così disse, in preda all’angoscia; e l’udì la divina fra le dee.

Adirata contro di lei, Demetra dalla bella corona

il figlio che Metanira, oltre ogni speranza, nella sua casa aveva generato,

con le mani immortali trasse via dal fuoco, e lontano da sé

lo depose a terra, piena di furore terribile nell’animo;

e intanto diceva a Metanira dalla bella cintura:

« O stolti esseri umani, incapaci di prevedere

il destino della gioia o del dolore che incombe!

In verità, per la tua incoscienza anche tu hai gravemente errato.

Infatti – e mi sia testimone l’inesorabile acqua dello Stige,

su cui giurano gli dei immortale, certo, e immune da vecchiezza per sempre

io avrei reso tuo figlio, e gli avrei concesso un privilegio imperituro:

ma ora non potrà più sfuggire al destino di morte.

Egli avrà tuttavia un privilegio imperituro, per sempre, poiché è salito

sulle mie ginocchia, e ha dormito fra le mie braccia:

in suo onore, ogni volta che l’anno avrà compiuto il suo ciclo

attraverso le stagioni, i figli degli Eleusini per sempre eseguiranno

un combattimento fra loro, una mischia violenta.

Io sono l’augusta Demetra, colei che più di ogni altro

agl’immortali e ai mortali offre gioia e conforto.

Orbene: per me un grande tempio, e in esso un’ara,

tutto il popolo innalzi ai piedi della rocca e del suo muro sublime,

più in alto di Callicoro, sopra un contrafforte del colle;

io stessa v’insegnerò il rito, affinchè in futuro

celebrandolo piamente possiate placare il mio animo».

Così dicendo la dea mutò la statura e l’aspetto

respingendo da sé la vecchiaia; la bellezza intorno a lei raggiava,

un dolce aroma dal suo peplo odoroso

si effondeva, e per largo tratto una luce dalle membra immortali

della dea rifulgeva; le bionde chiome le coprivano gli omeri,

e la solida casa si riempì di splendore, come per un lampo.

Ella usci, attraversando la sala; e alla donna subito si sciolsero le ginocchia:

per lungo tempo restò senza voce, e nemmeno si ricordava

del figlio prediletto, di raccoglierlo dal pavimento.

Ma le sorelle udirono il pianto implorante del bambino

e balzarono giù dai soffici letti; quindi una di loro

prendendolo tra le braccia se lo strinse al petto,

un’altra ravvivò il fuoco, un’altra corse con piede leggero

per accompagnare la madre via dalla sala odorosa.

Lavarono il bambino che si dimenava, standogli intorno

e circondandolo di ogni cura ; ma il suo animo non si addolciva,

poiché meno brave, davvero, erano le nutrici che ora si occupavano di lui!

Vegliando tutta la notte, cercavano di placare la dea gloriosa,

tremanti di terrore; e all’apparire dell’aurora

al possente Cèleo esattamente narrarono

ciò che aveva prescritto Demetra, la dea dalla bella corona.

Egli allora convocò in assemblea il popolo innumerevole,

e ordinò di costruire, per Demetra dalle belle chiome,

un pingue tempio e un’ara, sopra un contrafforte del colle.

Essi subito obbedivano, e davano ascolto alle sue parole:

costruivano il tempio come aveva ordinato, e questo sorgeva alto,

per volontà della Quando poi ebbero terminato, e posto fine alla fatica,

si avviavano per andare ognuno alla sua casa; e la bionda Demetra

sedendo nel tempio, rimaneva in disparte da tutti gli dei,

struggendosi nel rimpianto della figlia dalla vita sottile.

E sulla terra feconda ella rese quell’anno infausto

per gli uomini, tremendo; né più il suolo

lasciava germogliare i semi, poiché li teneva nascosti Demetra dalla bella corona.

Molti ricurvi aratri i buoi trascinavano invano sui campi,

molto candido orzo cadde a vuoto nei solchi.

E certo ella avrebbe distrutto interamente la stirpe degli uomini mortali

con la fame inesorabile, e lo splendido privilegio delle offerte

e dei sacrifici avrebbe sottratto a coloro che abitano le dimore dell’Olimpo,

se Zeus non se ne fosse preso cura, e non avesse meditato nel suo animo.

Dapprima, egli incitò Iride dalle ali d’oro a chiamare

Demetra dalle belle chiome, che ha molto amabile aspetto.

Così disse, ed ella a Zeus dalle nere nubi, figlio di Crono,

obbediva; e corse con passi veloci attraverso lo spazio.

Venne alla rocca della odorosa Eleusi,

e trovò nel tempio Demetra dallo scuro peplo;

e a lei rivolgendosi, pronunciò parole alate:

« Demetra, il padre Zeus, che nutre immutabili disegni, t’invita

a tornare con la stirpe degli dei che vivono in eterno:

suvvia, non resti inascoltato il mio messaggio, che viene da Zeus».

Così parlava, supplicando; ma il cuore della dea non si lasciò persuadere.

Allora il padre mandava gli dei beati che vivono in eterno,

tutti, uno dopo l’altro: a turno giungendo

la invocavano, e le offrivano molti magnifici doni,

e i privilegi che desiderasse ottenere fra gl’immortali:

ma nessuno riusciva a persuadere la mente e l’animo

della dea adirata nel cuore: ella respingeva con durezza le loro parole.

Diceva infatti che non sarebbe più ritornata all’Olimpo odoroso

e non avrebbe consentito che crescessero i frutti della terra,

prima di aver veduto coi suoi occhi la figlia dal bel volto.

E quando ebbe udito queste cose, Zeus dal tuono profondo,

che vede lontano, inviò all’Erebo l’uccisore di Argo, dal caduceo d’oro,

affinchè convincendo Ade con abili parole

la veneranda Persefone fuori dalla tenebra densa

conducesse alla luce del giorno, fra gli dei, e così la madre

rivedendola coi suoi occhi, ponesse fine all’ira.

Obbedì Ermes, e subito verso le profondità della terra

si slanciò rapidamente, lasciando le dimore dell’Olimpo.

Trovò il dio che stava nella sua casa

e sedeva sul trono con la nobile compagna

piena d’inquietudine per la nostalgia della madre – e la madre,

per l’agire intollerabile degli dei immortali, meditava il suo tremendo disegno.

E, fermandosi presso di loro, così parlò il possente uccisore di Argo:

«O Ade dalle cupe chiome, che regni sui morti,

Zeus, il padre, mi ordina di condurre fuori dell’Erebo,

fra gli dei, l’augusta Persefone, affinchè la madre

rivedendola coi suoi occhi ponga fine al rancore e all’ira inesorabile

contro gl’immortali; poiché medita un grave progetto:

sterminare la debole stirpe degli uomini nati sulla terra

tenendo il seme celato sotto la zolla, e distruggendo le offerte

che spettano agl’immortali. Tremendo è il suo rancore; e non si unisce

agli dei, ma, in disparte, entro il tempio odoroso d’incenso siede,

e abita l’aspra rocca di Eleusi».

Così egli diceva; e il signore dei morti, Aidoneo, accennò un sorriso

con le sopracciglia: né si ribellò all’ordine di Zeus, il sovrano.

E premurosamente esortò la saggia Persefone:

«Torna, Persefone, presso tua madre dallo scuro peplo;

ma serba nel petto l’animo e il cuore sereni,

e non rattristarti troppo, oltre ogni misura.

Non sarò per te uno sposo indegno al cospetto degl’immortali

io che sono il fratello del padre Zeus; e quando sarai quaggiù,

regnerai su tutti gli esseri che vivono e si muovono
e avrai fra gl’immortali gli onori più grandi;

per sempre vi sarà un castigo per coloro che ti offendono,

quelli che non placheranno con offerte il tuo animo

celebrando i sacri riti e offrendoti i doni dovuti».

Così egli diceva: si rallegrò la saggia Persefone, e subito balzò in piedi,

piena di gioia; egli tuttavia le diede da mangiare il seme del melograno,

dolce come il miele,- furtivamente guardandosi intorno –

affinchè ella non rimanesse per sempre lassù, con la veneranda Demetra

dallo scuro peplo.

E davanti al carro d’oro i cavalli immortali fece preparare il signore di molti uomini,

Aidoneo.

Ella salì sul carro, e al suo fianco il possente uccisore di Argo

prendendo nelle mani la briglia e la sferza

lo guidava fuori della reggia; volentieri i cavalli si alzavano a volo.

Velocemente percorsero la lunga via: né il mare, né le acque dei fiumi,

né le vallate erbose, frenavano l’impeto dei cavalli immortali, né le montagne:

più in alto di esse muovendo, solcavano le dense nubi.

E dopo averli condotti là dove dimorava Demetra dalla bella corona

li fece fermare davanti al tempio odoroso d’incenso.

La dea, scorgendo sua figlia, si slanciò, simile a una menade

sul monte ombroso di selve.

A sua volta Persefone, quando vide il bel volto

di sua madre, lasciando il carro e i cavalli,

scese di corsa, e le gettò le braccia al collo, stringendosi a lei.

Ma ben presto, mentre ancora la dea teneva la figlia tra le braccia,

il suo cuore intuiva un inganno; fu presa da un cupo terrore,

e interrompendo gli abbracci, subito le domandava:

«Figlia, mentre eri laggiù, non hai mangiato, certo,

alcun cibo? parla, non celarmi nulla, affinchè io lo sappia con te.

Così infatti, ritornando dall’aborrito Ade, con me e col padre Cronide

dalle nere nubi potrai abitare, onorata da tutti gl’immortali.

Se invece hai mangiato, scendendo di nuovo nelle profondità della terra

lì abiterai ogni anno per una delle tre stagioni:

le altre due, con me e con gli altri immortali.

Ogni volta che la terra si coprirà dei fiori odorosi,

multicolori, della primavera, allora dalla tenebra densa

tu sorgerai di nuovo, meraviglioso prodigio per gli dei e gli uomini mortali.

E con quale insidia t’ingannò il possente dio che molti uomini accoglie?».

E a lei queste parole rivolse Persèfone bella:
«Tutta la verità, madre mia, raccontare ti voglio.
Ermète giunse a me, benevolo araldo veloce,
ché Giove lo mandò, lo mandarono gli altri Beati,
ch’io dall’Erèbo uscissi, che tu mi vedessi, e lo sdegno funesto deponessi, che t’anima contro i Beati.

Io feci súbito un balzo di gioia improvvisa; e il mio sposo
di melagrano un chicco mi die’, più soave del miele.
Non lo volevo, io no, ma pur mi costrinse a gustarlo.
Come poi mi rapí, per volere del saggio Croníde,
ti spiegherò, ti dirò tutto quanto, cosi come chiedi.
Stavamo tutte noi, fanciulle, sul florido prato,
Elettra, Fèna, Ianta, Leucíppa, Callíroe, Iàca,
Mèlita, Melobósi, Rodèa, Tiche, Ocirëa bella,
Iànira, Acaste, Admèta, Criseia, Ròdope, Pluta,
Urania, Galassàura, Calipso l’amabile, e Stige.
Folleggiavamo, sul prato cogliendo gli amabili fiori,
l’iridi insieme, il croco mirabile, e bocci di rose,
bocci di giglio, a vedere stupendi, e il giacinto, e il narciso,
cui germogliava insieme col croco la terra infinita.
Io li coglievo, dunque, col cuore in letizia; e la terra
si spalancò, ne balzò fuori il Nume che tutti riceve,
e sopra il carro d’oro, pei baratri bui della terra

mi trascinò reluttante, che invano levavo le strida.
Questa è la verità, che, sebbene crucciata, ti narro».
Cosí, per tutto il giorno, col cuore in ambascia, le Dive
l’una dell’altra assai consolarono l’anima e il cuore,
l’una facendo all’altra carezze; ed il cuor dai cordogli
ebbe alfin tregua, e gioia l’una ebbe dall’altra, e la diede.
E venne Ècate ad esse vicina, dal morbido velo,
e molto festeggiò la figlia di Dèmetra bella;
e fu, da quindi innanzi, compagna e ministra alla Diva.

E il Nume poi, che tuona profondo, mandò messaggera
Rea dalla chioma bella, perché conducesse fra i Numi
Dèmetra, la Signora dal cerulo peplo; e promise
che onori avrebbe a lei concessi fra i Numi immortali;
e consentí che un terzo dell’anno volubile resti
la sua figliuola nella caligine fosca d’abisso,
gli altri due terzi, presso la Madre, e i Beati Celesti.
Disse. Né tarda fu la Diva al comando di Giove.
Rapidamente giù si lanciò dalle vette d’Olimpo,
e presto al Rario giunse. Ferace per uberi zolle,
un tempo, era; ma frutto non dava, ma sterile adesso,
arido stava, e molto bianco orzo serrava nascosto,
come Demètra voleva dall’agil malleòlo. Ma presto,
come la Primavera tornasse, doveva fiorire
di lunghe spighe; e tutti di spighe recise gravarsi
i pingui solchi, e giunchi le avrebbero strette in mannelli.
E l’una e l’altra qui, vedendosi, furono liete.
E Rea parlò, la Dea dal morbido velo, a Demètra:
«O figlia, vieni: Giove, signore del tuono, ti chiama,
ché tu venga fra i Numi: concederti onori promette.

Su’ persuaditi, figlia, né troppo covare lo sdegno
contro il figliuolo di Crono signore dei nuvoli, e il frutto
súbito fa’ germogliare che in vita mantiene i mortali».
Disse cosí; né restía fu la Dea dalle vaghe ghirlande.
Súbito i frutti fe’ germogliar da le zolle feraci,
e tutta si coprí la terra di fiori e di fronde.
Ed ai sovrani datori di leggi, pria ch’ella partisse,
a Díocle, di cavalli maestro, a Trittòlemo, a Eumòlpo,
al condottiere di genti gagliardo Celèo, fu maestra
dei venerandi riti, a tutti insegnò celebrare
le pure orge: concesso non è trasgredirle o spiarle,
né farne ciancia: la voce rattenga l’ossequio a le Dive.
Tra gli uomini mortali, beato chi giunge a vederle;
ma chi restò profano, chi parte non v’ebbe, non gode
uguale fato, dopo la morte, nell’umido buio.

Ora, poi ch’ebbe tutto disposto, la Diva, all’Olimpo
novellamente salí, fra il consesso degli altri Immortali.
E qui, vicino a Giove signore del folgore, stanno
beate ed onorate. Felice su tutti, il terrestre
che queste Dee di cuore diligon: ché mandano tosto
alla sua casa opulenta, ché segga sul suo focolare,
Pluto, che agli uomini dà mortali le grandi ricchezze.
Su, Dee che proteggete le genti d’Elèusi fragrante,
e Paro, tutta cinta dall’acque, ed Antróna rocciosa,

Diva delle stagioni, Signora che rechi i fulgenti
doni, tu stessa, e teco tua figlia, Persèfone bella,
dammi, dell’inno in cambio, ch’io meni gioconda la vita,
lo mi ricorderò d’esaltarti in un carme novello